Materiali e contributi

29 aprile 2016
Quel che resta dopo il referendum

Pubblichiamo un articolo degli avvocati Walter Fumagalli ed Emiliano Fumagalli dal titolo “Quel che resta dopo il referendum”, in merito al quadro normativo vigente (prima e) dopo il referendum del 17 aprile scorso.

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QUEL CHE RESTA DOPO IL REFERENDUM

Il referendum del 17 aprile è stato preceduto da un dibattito surreale, che non ha affrontato l’effettivo contenuto del quesito referendario e che in ultima analisi è stato caratterizzato da una sistematica opera di disinformazione.

Hanno cominciato i sostenitori del sì, invitando gli elettori a “fermare le trivelle” (anche se non c’era alcuna trivella da fermare) ed affermando (sbagliando) che la norma da abrogare (diciotto parole dell’articolo 1, comma 239, della legge 28 dicembre 2015 n. 208) avrebbe prorogato automaticamente, fino all’esaurimento dei relativi giacimenti, l’efficacia delle concessioni di coltivazione di idrocarburi già rilasciate ed aventi ad oggetto il fondo marino compreso entro la fascia di 12 miglia dalla costa, nonché entro le altre fasce di mare protette individuate dal medesimo comma.

I fautori del no hanno reagito sostenendo (anch’essi sbagliando) che, se tale norma fosse stata abrogata, una volta scaduto il termine trentennale di validità delle predette concessioni sarebbe stato impossibile prorogare la loro efficacia fino al completo sfruttamento dei giacimenti, e quindi paventando che in tal caso si sarebbero persi migliaia di posti di lavoro.

I sostenitori del sì, anziché evidenziare con decisione l’infondatezza giuridica di tale asserzione, hanno preferito replicare affermando che lo sviluppo delle fonti di energia rinnovabili può creare un numero di posti di lavoro assai maggiore, dimenticando però che tale sviluppo non è impedito dalla norma di cui è stata chiesta l’abrogazione e che quindi la prospettata compensazione è intrinsecamente improponibile.

Poco per volta, poi, si è tentato di trasformare l’oggetto del referendum sostenendo che non si trattava tanto di abrogare alcune parole di una determinata norma, quanto di schierarsi a favore di un modello di politica energetica basato sulle fonti di energia rinnovabili, come se i cittadini che hanno votato no o che non hanno votato fossero contrari all’uso ed allo sviluppo di tali fonti (per fortuna, almeno il 90% degli Italiani è favorevole alle fonti di energia rinnovabili, e non soltanto quel 27% scarso del corpo elettorale che ha votato sì al referendum).
I personaggi dotati di maggior acume politico, poi, hanno avuto la brillante idea di far apparire il referendum come un atipico voto popolare di sfiducia al Governo in carica, con il risultato che secondo questa geniale chiave di lettura oggi più del 73% del corpo elettorale risulterebbe favorevole al Governo.

Naturalmente poi, una volta visto l’esito del referendum, alcuni sostenitori del sì si sono detti soddisfatti o addirittura entusiasti (beati loro!), mentre gli altri hanno cercato di giustificare la sconfitta con le argomentazioni più improbabili: la congiura del silenzio del mondo dell’informazione, l’eccessivo tecnicismo del quesito referendario, il complotto delle lobbies del petrolio, l’invito a non votare di alcuni politici (in sostanza, due), la disaffezione per la politica degli Italiani, il bel tempo che ha favorito le gite fuori porta, il destino cinico e baro, una tremenda inondazione, le cavallette!

Nessuno che abbia riconosciuto onestamente “il corpo elettorale ha ragione e noi avevamo torto, comunque abbiamo sbagliato tutto, ed avendo sbagliato tutto ci dimettiamo dai nostri incarichi e d’ora in poi ci dedichiamo ad altro”.

A questo punto dunque, esaurito lo squinternato clamore della bagarre referendaria, con la necessaria pacatezza occorre fare il punto della situazione e ricostruire l’esatta portata del tanto vituperato articolo 1, comma 239, della legge n. 208/2015 (articolo per il quale si badi bene, ma ben pochi si sono dati la briga di ricordarlo agli elettori, in realtà nessuno aveva mai proposto un referendum abrogativo!).

Per ricostruire il quadro normativo che regola la materia occorre prendere le mosse dalla legge 21 luglio 1967 n. 613 il cui articolo 29, con specifico riferimento alle concessioni di coltivazione di idrocarburi nel sottofondo marino, prima dispone che “la durata della concessione è di trenta anni”, e quindi aggiunge che “decorsi i due terzi del suddetto periodo, il concessionario ha diritto ad una proroga di dieci anni se ha eseguito i programmi di coltivazione e di ricerca e se ha adempiuto a tutti gli obblighi derivanti dalla concessione”.

A sua volta l’articolo 9 della legge 9 gennaio 1991 n. 9 stabilisce che, “al fine di completare lo sfruttamento del giacimento, decorsi i sette anni dal rilascio della proroga decennale, al concessionario possono essere concesse, oltre alla proroga prevista dall’articolo 29 della legge 21 luglio 1967, n. 613, una o più proroghe, di cinque anni ciascuna se ha eseguito i programmi di coltivazione e di ricerca e se ha adempiuto a tutti gli obblighi derivanti dalla concessione o dalle proroghe”.

Su questo quadro normativo si è innestato l’articolo 35 del decreto legge 22 giugno 2012 n. 83 (approvato dal Governo Monti e modificato in sede di conversione dalla legge 7 agosto 2012 n. 134), il quale ha sostituito l’articolo 6, diciassettesimo comma, del decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152 disponendo che “ai fini di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, all’interno del perimetro delle aree marine e costiere a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela ambientale … sono vietate le attività di ricerca, di prospezione nonché di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare … Il divieto è altresì stabilito nelle zone di mare poste entro dodici miglia dalle linee di costa lungo l’intero perimetro costiero nazionale e dal perimetro esterno delle suddette aree marine e costiere protette, fatti salvi i procedimenti concessori di cui agli articoli 4, 6 e 9 della legge n. 9 del 1991 in corso alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 29 giugno 2010 n. 128 ed i procedimenti autorizzatori e concessori conseguenti e connessi, nonché l’efficacia dei titoli abilitativi già rilasciati alla medesima data, anche ai fini della esecuzione delle attività di ricerca, sviluppo e coltivazione da autorizzare nell’ambito dei titoli stessi, delle eventuali relative proroghe e dei procedimenti autorizzatori e concessori conseguenti e connessi. Le predette attività sono autorizzate previa sottoposizione alla procedura di valutazione di impatto ambientale di cui agli articoli 21 e seguenti del presente decreto, sentito il parere degli enti locali posti in un raggio di dodici miglia dalle aree marine e costiere interessate dalle attività di cui al primo periodo, fatte salve le attività di cui all’articolo 1, comma 82-sexies, della legge 23 agosto 2004, n. 239, autorizzate, nel rispetto dei vincoli ambientali da esso stabiliti, dagli uffici territoriali di vigilanza dell’Ufficio nazionale minerario per gli idrocarburi e le georisorse, che trasmettono copia delle relative autorizzazioni al Ministero dello sviluppo economico e al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare …
Ed è su questa norma, e non su altre, che alcune Regioni hanno chiesto che venisse indetto un referendum popolare per abrogare le parole riportate in corsivo grassetto.

Il comma 239 dell’articolo 1 della legge 28 dicembre 2015 n. 208, approvata dal Parlamento per venire incontro alla richiesta delle Regioni, ha di fatto abrogato la disposizione poc’anzi riportata, sostituendo così quella parte dell’articolo 6 della quale era stata promossa l’abrogazione: “… I titoli abilitativi già rilasciati sono fatti salvi per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale …”.

Questa modifica, però, non è stata ritenuta sufficiente dall’Ufficio centrale per il referendum e dalla Corte costituzionale, i quali hanno ritenuto che il testo così modificato non avesse fatto venir meno la necessità del referendum, referendum che quindi la Corte ha dichiarato ammissibile con riferimento alle parole riportate in corsivo grassetto.

Visto che a seguito del referendum tali parole non sono state abrogate, è giunto il momento di chiedersi se veramente il comma 239 abbia prorogato automaticamente l’efficacia delle citate concessioni fino al termine della “durata di vita utile del giacimento” (come hanno improvvidamente sostenuto i fautori del sì per dare un senso alla loro campagna referendaria), oppure no.

Come emerge chiaramente dall’articolo 9 della legge n. 9/1991 poc’anzi riportato, in via generale le concessioni di coltivazione sono rilasciate “al fine di completare lo sfruttamento del giacimento”, ma dopo la scadenza del termine di trent’anni stabilito dalla legge ciò può avvenire solamente purché vengano richiesti e vengano emessi gli specifici provvedimenti di proroga previsti dall’articolo 29 della legge n. 613/1967 e dallo stesso articolo 9 della legge n. 9/1991, e soprattutto purché ricorrano le condizioni a tal fine prescritte da tali articoli.

È plausibile ritenere che il Legislatore, nel momento stesso in cui ha vietato il rilascio di nuove concessioni di coltivazione in determinate zone di mare ritenute meritevoli di particolare protezione, abbia automaticamente prorogato l’efficacia di quelle già rilasciate in tali zone, lasciando ai concessionari la libertà di decidere a loro insindacabile piacimento se, come e quando continuare ad estrarre idrocarburi, e quindi se, come e quando rimuovere i relativi impianti?

La logica dice evidentemente di no, ma soprattutto lo dice il diritto: se prorogasse automaticamente l’efficacia delle concessioni già rilasciate, tale disposizione violerebbe (quanto meno) gli articoli 3 e 9 della Costituzione.

Ed infatti, in tale eventualità per le aree giudicate più “sensibili” dal punto di vista ambientale e quindi ritenute meritevoli di maggior tutela (quelle protette) risulterebbe prevista una normativa più permissiva di quella prevista per le aree meno “sensibili”: per queste ultime il mantenimento in vita delle concessioni sarebbe possibile solamente nel rispetto delle prescritte condizioni e solamente previa emanazione degli appositi provvedimenti di proroga, mentre per quelle più “sensibili” la sussistenza di tali condizioni e di tali provvedimenti non sarebbe necessaria, ed il mantenimento in vita delle concessioni sarebbe lasciato al capriccio dei concessionari.

Non solo, ma se la tesi della proroga automatica fosse fondata, la norma risulterebbe in contrasto anche con la direttiva comunitaria 94/22/CE del 30 maggio 1994 avente ad oggetto le “condizioni di rilascio e di esercizio della autorizzazioni alla prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi”, e quindi si porrebbe in contrasto pure con l’articolo 117, primo comma, della Costituzione.

Tale direttiva, infatti:
– nelle premesse dà atto che occorre “favorire nel miglior modo possibile … la coltivazione delle risorse che si trovano nella Comunità”, ed occorre altresì “contribuire ad una prospezione, ricerca e coltivazione ottimali delle risorse negli Stati membri”;
– sempre nelle premesse precisa che “l’estensione delle aree costituenti oggetto di autorizzazioni e la durata di queste ultime devono essere limitate …”;
– e quindi all’articolo 4 stabilisce che “gli Stati membri adottano le disposizioni necessarie affinché: … b) la durata dell’autorizzazione non superi il periodo necessario per portare a buon fine le attività per le quali è stata concessa”.

Una norma nazionale che lasciasse liberi i concessionari di coltivare o meno i giacimenti a loro piacimento e quindi di tenere in vita le concessioni a tempo indeterminato sarebbe chiaramente in contrasto con queste regole.

Non a caso, il comma 239 in esame non ha escluso in modo espresso l’applicazione dell’articolo 29 della legge n. 613/1967 e dell’articolo 9 della legge n. 9/1991, i quali contengono disposizioni tuttora vigenti e dunque pienamente efficaci.

In conclusione, poiché quando una norma sia suscettibile di molteplici interpretazioni deve essere preferita quella che garantisce il rispetto della Costituzione e della normativa comunitaria, l’articolo 1, comma 239, della legge 28 dicembre 2015 n. 208 deve essere interpretato nel senso che in via di principio “i titoli abilitativi già rilasciati sono fatti salvi per la durata di vita utile del giacimento”, ma in concreto la durata trentennale fissata dall’articolo 29 della legge n. 613/1967 può essere superata solamente se siano chiesti ed emanati i provvedimenti di proroga previsti dal medesimo articolo 29 e dall’articolo 9 della legge n. 9/1991, e soltanto se ricorrano le condizioni a tal fine stabilite da tali norme.

Così sono rispettati tanto l’interesse dei concessionari (tutelato dall’articolo 41 della Costituzione) che a suo tempo hanno investito risorse ed energie facendo affidamento su una normativa che a determinate condizioni garantiva loro la possibilità di “completare lo sfruttamento del giacimento”, quanto l’interesse della collettività nazionale (tutelato dall’articolo 9 della Costituzione) a vedere salvaguardati l’ambiente ed il paesaggio.

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